I Monoliti del Parco La Martina

Nel Parco La Martina è possibile osservare Pilastrini di fattezza diversa da quelli visibili nelle altre frazioni del Comune di Monghidoro, con forma simile a quella di monoliti.

Lungo le pendici della valle dove nasce l’Idice, il montanaro monghidorese coltivava la sua fame sui difficili campi rubati al complesso caotico indifferenziato della geomorfologia locale (le Argille scagliose). Nella parte più alta è una valle di strapiombi o di vasti prati, con fantastiche rocce affioranti, come appunto il cono a ‘polentina’ di Monte Rocca, con a fianco la sua scheggia di formaggio, il Rocchino, spesso avvolti da nebbie, nubi, bufere di neve o pioggia o grandine che “magari fossero pistadèn“… Quasi a gustarsi questo paesaggio dalla complicata geologia, si colloca in posizione panoramica La Martina, un borgo agli estremi confini orientali del comune di Monghidoro. Scarse le notizie della sua storia, se non che, come per molti altri borghi del territorio, il toponimo ha origine dal nome di un abitante del luogo: nello stato delle anime della Parrocchia di Campeggio del 1816 viene indicato come Domus de Martinis e negli estimi del XVIII secolo come Casa dè Martini o Cà de Martini. Questo Domus, o Cà, o Casa, non sorge in un luogo qualunque, ma dove affiora un lembo del Flysch arenaceo-marnoso monghidorese, un caratteristico Poggio di arenaria forte, da cui cavare le pietre da costruzione. Si tratta di un’arenaria compatta, di un bel grigio uniforme, senza troppe venature gialle e con scagliette di mica che brillano in superficie. La cava del Poggio ha fornito il materiale da costruzione per tutte le case attorno e, in tempi recenti, anche il lastricato per alcune parti della via centrale di Monghidoro.

Anche a La Martina sono presenti edicole devozionali e pilastrini con fattezza di monoliti. Non si tratta di monoliti di impatto megalitico del genere di Stonehenge, anche se, come quelli, hanno una funzione monumentale, in quanto sono stati posti a ‘monumento’, a ricordo, come le date e le iscrizioni incise.

Si tratta di pilastrini devozionali “a misura d’uomo”, scolpiti in un unico blocco di pietra che comprende tutto: base, fusto, tempietto per l’immagine e cuspide. Di questi pilastrini monolitici, dalle informazioni di Maria Cecchetti, se ne contavano cinque al 2018 nel Parco La Martina, di cui tre al Borgo de La Martina e due in zone limitrofe.

Il più importante, sempre secondo Maria Cecchetti, è nella piazzetta del Borgo de La Martina, posto a ornare il più amato edificio a funzione pubblica del posto: la fontana, o pozza, come la chiamano qui. Si diceva: … “se questa que la savèss parler…”. Infatti alla pozza si andava per bere, per lavare, si portavano le bestie, si andava a trecciare, a giocare, a chiacchierare, a cercare incontri… La struttura della fontana de La Martina è simile a quelle della montagna monghidorese: ha un muretto a monte per il contenimento del terreno e il drenaggio della sorgente, da un bocchettone sgorga l’acqua che cade in una prima vasca abbeveratoio (a sinistra di chi guarda), da qui a sfioramento l’acqua pulita passa nella vasca lavatoio un po’ più bassa (a destra), fornita sui bordi di lastre inclinate dove insaponare e battere i panni, dal lavatoio l’acqua sporca esce in basso in canalette disposte ad hoc, tappi e rubinetti regolano l’economia del prezioso elemento. A La Martina le due vasche sono in parallelo e formano un unico piano di fronte, costruite con grossi blocchi non molto regolari della locale pietra del Poggio, salvo alcune lastre poste a rinforzo dell’abbeveratoio, che nel dopoguerra sono state recuperate dal distrutto monumento al carro armato mussoliniano. Si tratta di lastre in roccia vulcanica del Sasso della Mantesca, famose per la loro durezza e per essere le più adatte a far macine per il granoturco. Fra le due vasche si innalza il pilastrino monolitico. Lo zoccolo basso, parallelepipedo, è raccordato da tre sottili rientranze a scaletta o modanature a listello, al fusto più stretto. In alto, il motivo si ripete con gradazione inversa, per dare l’impostazione al tempietto più largo, in cui si apre una nicchia centinata per l’immagine sacra. Il monolite termina con una cuspide che ha la particolarità di essere a forma di piramide irregolare. Per descriverla esattamente dobbiamo dire che la faccia principale è sullo stesso piano della fronte, per cui le altre tre, per raccordarsi, sono inclinate in avanti. Questa particolare forma della cuspide ricorre, sigla di un unico autore, in tutti e cinque i monoliti rintracciati. Sembrerebbe una difficoltà esecutiva incontrata dallo scalpellino che, disegnando il triangolo della cuspide nella proiezione verticale del pilastrino sulla superficie del blocco di pietra, non abbia saputo sviluppare adeguatamente in profondità la forma della piramide. Se lo scalpellino non era abile nella distribuzione volumetrica dei piani, era però esperto in finiture, sia per la bocciardatura fine della superficie, sia per l’esattezza delle modanature di raccordo sopra descritte, sia per il motivo gradinato a spina di pesce che orna la faccia principale della cuspide, sia soprattutto per i caratteri lapidari romani, perfino rifiniti di grazie, dell’iscrizione.

Sulla fronte del fusto è inciso MRA / F. POLI. C / L’ANNO /SANTO / 1875. Poche lettere, problematiche. Procedendo con ordine: ”MRA” probabilmente è un’abbreviazione, quasi codice fiscale ante litteram, del nome di “MARIA”, vista l’immagine mariana esposta nella nicchia. Alla riga successiva troviamo il cognome “POLI”, in questo caso possiamo dire con un po’ di certezza che esso rimanda alle famiglie Poli originarie di Piancaldoli, alle quali appartennero sia famosi scalpellini, sia diversi sacerdoti. Anche se non abbiamo adeguata documentazione, possiamo dire che un ramo dei Poli ha sicuramente abitato a La Martina, lo conferma il ricorrere del cognome in una lastra inserita in una antica casa del borgo (con la data 1860) e in un altro pilastrino monolitico di cui parleremo in seguito. La lettera “F” potrebbe stare per “Fecit”, mentre la “C” dovrebbe essere l’iniziale del nome proprio. Ma cognome e nome dell’autore scalpellino? O del committente devoto? L’occasione era l’Anno Santo 1875, piuttosto tribolato, in quanto il pontefice Pio IX, dopo la dissoluzione dello Stato Pontificio del 1870, non aprì la Porta Santa, ignorò la città e i pellegrini, evitò i cerimoniali e si autorecluse nei Palazzi Vaticani. Inaugurò l’Anno Santo del 1875 in forma privata, con la sola presenza del clero, essendo Roma occupata dalle truppe dello scomunicato Vittorio Emanuele II. Chi può aver pensato di dedicare a questo sfortunato Anno Santo un monumento, sia pur modesto e innalzato in uno sperdutissimo borgo di montagna, se non un ecclesiastico fedelissimo al suo Pontefice? Occasione e committente curiosi, che meriterebbero un’indagine più accurata…

Il Pilastrino mostra l’immagine della Madonna dei Sette Dolori1 esposta nella nicchia. Si tratta di una targa ceramica, tipica della produzione imolese. Si direbbe che l’immagine risalga alla stessa data incisa nella pietra del fusto (1875) o a poco dopo, sia per i suoi caratteri ceramici, sia perché il profilo centinato della nicchia in pietra corrisponde con quello della formella. La si può attribuire alla manifattura ceramica Bucci, che a Imola ha avuto tradizione secolare per questo tipo di immagini. L’immagine è alquanto scheggiata, ma ancora ben chiara nella sua iconografia complessiva, dove domina l’azzurro del manto della Vergine e il giallo oro delle spade. In ciò che resta del cartiglio in basso si decifrano le lettere centrali della parola “MATER”, il tutto doveva recitare “MATER/DOLOROSA”. Ci piace ricordare come per le fontane nei borghi della nostra montagna sia sempre prevista la nicchia per l’immagine sacra, quasi sempre mariana, salvo qualche eccezione. E’ ben noto come l’elemento naturale dell’acqua abbia un legame simbolico molto stretto con la Vergine Maria: dalla terra, simbolo della Madre di Dio, esce la sorgente dell’acqua, simbolo di Cristo, acqua viva.

Da testimonianze dei vecchi abitanti del Borgo, sappiamo che La Martina non aveva né chiesa né cappella. Per la messa alla domenica si scendeva giù in Idice e poi si saliva a Campeggio. Un’ora di passo montano all’andata e una al ritorno per il settimanale pellegrinaggio alla piccola Lourdes. Ma fra i confinanti non c’era pietà: a Campeggio chiamavano quelli de La Martina “cagarej” per il loro andare in giro sempre con greggi che lasciavano scie del loro ‘ricordino’ lungo le strade, mentre a La Martina chiamavano quelli di Campeggio “zivulaj” in quanto solo cipolle, che stanno ben ferme sottoterra, si potevano coltivare in quei campi verticali dal lato sinistro dell’ldice. A questo proposito, bisogna dire che la festa che per un po’ di anni si fece alla chiesina di Frassineta, senza mancare di rispetto alle regolari finalità religiose, fra zivulaj e cagarej, per la gente montanara, vuoi perché quelli de La Martina partecipavano in massa a un evento che una volta tanto era dalla loro parte del torrente, o vuoi perché il termine più sfacciato faceva troppo gola, era denominata “la festa dei cagarej”. C’era il tempo degli scherzi e c’era il tempo della solidarietà: Se sVo/ che l’amicezìa s’mantegna una spurtina ci’a va e un’etra ci’a vegna, così siglavano con modestia lo scambio di piccoli e grandi favori… ma altro che sportina capitò quella volta, quando a La Martina c’era più di un metro di neve e si doveva portare un’ammalata all’ospedale a Bologna. Fu allestito un carro da fieno imbottito di materassi, trainato da sei paia di buoi, che, preceduto da tutti gli uomini disponibili per aprire il cammino coi badili, arrivò fra mille fatiche fino al Sasso di San Zenobi, dove per la strada buona infine giunse l’ambulanza. Anche se non c’era chiesa a La Martina, le case avevano sulla porta belle nicchie per le immagini sacre, lì poste a proteggere l’andare e venire quotidiano e soprattutto a dare un segno di stabilità all’edificio e alla famiglia che lo abitava. Di queste nicchie, per la cui costruzione sono state riservate pietre tra le più regolari e belle, oggi se ne contano sette.

Poco fuori dal borgo La Martina, lungo la strada che passa dal castagneto, sentiero CAI 805, c’è un altro pilastrino monolitico, mentre un altro ancora è poco oltre, più in alto, alla ex cava del Poggio. Sono della medesima pietra serena e presentano le medesime caratteristiche di lavorazione gradinata e bocciardata sulle superfici di quello alla fontana e come quello hanno la piramide cuspidale sghemba, spostata in avanti. Sul pilastrino della strada del castagneto, se vi furono iscrizioni non sono oggi più visibili. Nell’edicola è posizionata l’immagine della B.V di Boccadirio a cura di Bruna Tattini. Il Pilastrino si presenta in buono stato ed è sempre adornato con fiori e corone del rosario.

Sempre da Maria Cecchetti abbiamo informazioni di un pilastrino alla ex cava del Poggio, un’altura rocciosa del Flysch di Monghidoro, sopra al Borgo de La Martina, che nei nostri sopralluoghi alla ricerca di pozze e fontane non abbiamo considerato. Su questo pilastrino si riesce a decifrare l’scrizione: “1870 C. / M / POLI“. La maiuscola “/M”, alla quale è riservato lo spazio centrale potrebbe essere una dedicazione alla vergine Maria, mentre la lettera “C”, trova riferimento in un certo Costantino Poli, che esattamente nel 1870 è proprietario di un fabbricato (abitazione civile) a La Martina, come risulta da un elenco dell’Archivio Comunale di Monghidoro. Più sotto è inciso un cuore stilizzato, che dai segni di corrosione sembra essere dello stesso tempo dell’iscrizione: un segno d’amore sacro o profano? “Sacro Cuore” o il cuore di un innamorato? Oggi, come in passato, le donne del borgo vanno a recitare il rosario al pilastrino del bosco, che ha attorno un pò di spiazzo ed è più accessibile di quello presso la ex cava. Le corone del rosario sono appese alla punta della cuspide, da lì le raccolgono per proseguire in preghiera fra i sentieri, spesso fino al pilastrino della cava, per poi al ritorno riporle nuovamente alla punta del pilastrino di partenza. Si andava per pregare al pilastrino con più frequenza sia in caso di siccità, sia in caso di prolungato maltempo, secondo una tradizione ben conosciuta a Bologna, che da secoli vede un legame tra la discesa in città della Beata Vergine di San Luca e le avversità atmosferiche. Il pilastrino della ex cava al Poggio espone una ceramica raffigurante la Madonna di San Luca, attribuibile alla fabbrica imolese già citata. E’una delle poche immagini ceramiche originali superstiti: agli inizi degli anni ’70, in una sola notte, fu fatta razzia di tutte le immagini esposte in pilastrini e nicchie della zona, sostituite poi da mani devote con nuove immagini.

B.V di San Luca nel pilastrino presso ex cava del Poggio - foto Gianni Gitti giugno 2012

B.V di San Luca nel pilastrino ex cava del Poggio foto Gianni Gitti giugno 2012

Poco più a monte, lungo la cavedagna che porta a Cà del Zecca, accanto alla storica fontana privata che funge da abbeveratoio, sorge il quarto dei pilastrini monolitici, pressoché identico a quelli già descritti. L’immagine originale è stata sostituita con una ceramica imolese, con la B.V. del Piratello, di recente fattura. In questo caso l’iscrizione è solo in parte leggibile. Riporta: “PA M F U Q / P G R / S N P (A) M (A)/S (…) D (…)/RO (…) M/187 (…)“. Di chiara interpretazione ci sono solamente la dedicazione “Per Grazia Ricevuta” e il decennio 1870. Ogni riga inizia giustificata a sinistra e risulta come un seguito di maiuscole, a volte apparentemente accompagnate da lettere più piccole poste ad apice, che non compongono parole comprensibili. Forse iniziali di una frase? Iniziali di un gruppo di devoti? L’ ipotesi proposta è che questo pilastrino – e forse tutti cinque i monolitici – sia stato innalzato negli anni che seguirono il terribile 1855, anno del colera che decimò la popolazione della nostra montagna. Solo dopo qualche decennio, quando le famiglie ebbero modo di riprendersi dai lutti e da tanti disastri, prese respiro un rinnovato sentimento di fiducia che suggerì di dedicare edicole a ricordo su cui incidere un “P.G.R.” per il rinato senso di speranza. In questo senso, l’esempio più noto è il così detto “Pilastrino della peste” di Trasasso, dedicato e datato nel 1878. Un nuovo pilastrino, non con fattezza a “monolita” sicuramente del XX secolo, è posizionato nel prato adiacente Cà del Zecca, accanto a una pozza per anfibi. Non riporta iscrizione ed espone un’immagine in ceramica della B.V del Piratello. Le foto di questo sono del 2019.

 

Il quinto pilastrino a forma di monolita è stato censito da Maria Cecchetti, nei pressi di Cà della Selva, non riporta l’immagine originale, di cui resta solo la cornice ceramica, entro cui sono state poste immaginette sostituite e trafugate più volte in tempi successivi. Sullo stelo si legge   “1860 / P.G.R. / GIACOMO / GIACOMELLI / DI PINCAD (?)”. Il cognome Giacomelli è storico a Piancaldoli'”, quindi l’ultima parola dovrebbe indicare in modo quella località. È come se lo scalpellino non sapesse fare i conti con lo spazio e, iniziato a sinistra avesse poi deciso di scartare a suo piacere qualche lettera, pur di restare sulla riga. Questa difficoltà con gli spazi è più o meno visibile in tutti i suoi monoliti, dove le ultime lettere a destra o sono un po’ schiacciate o non hanno margine, così come le cuspidi un po’ irregolari.

 

 E veniamo agli aggiornamenti del 2020 – Altro pilastrino a La Martina, diverso dai precedenti monoliti, del XX secolo, costituito in più blocchi è posizionato in via Cà de La Selva, angolo via Martina e si presenta come un pilastrino slanciato e in buono stato, anche per gli evidenti rifacimenti, con un tempietto che mostra la Vergine di Lourdes e una scritta che riporta P.G.R. (che sta Per Grazia Ricevuta) datato 27/6/1944- 16/7/1945 a ricordo Anno Mariano 1954.

Nel corso del censimento delle aree umide de La Martina, dal 2017-2019 con i volontari locali si è focalizzata l’attenzione anche al recupero di manufatti locali, come pozzi e sorgenti. Quando capitava, quindi, abbiamo osservato anche lo stato pilastrini, come quello di S. Giuseppe rinvenuto sopra Frassineta a febbraio 2019, grazie alla segnalazione di Patrizia Grillini.

Pilastrino con immagine di San Giuseppe, nell’area della Buca dell’Amorosa, ritrovato a febbraio 2019 grazie alla segnalazione di Patrizia Grillini e descritto in primis da Maria Cecchetti:

Il pilastrino non è tutto in arenaria, ma con parti in laterizio (in pietra sono la cuspide e le cornici), come invece sono comuni in pianura (chi li costruiva usava i materiali di cui disponeva). Il fusto sembra in pietra colorata. La ceramica potrebbe essere sia toscana (Doccia) sia bolognese (Minghetti); ma occorrono altri dettagli per il confronto. Dovrebbe essere dei primi decenni del ‘900 e infatti riporta la data un po’ scolorita del 1926. L’immagine del Santo è quella di San Giuseppe.

Il luogo della collocazione rispetto alla strada, ai confini di proprietà, di una eventuale abitazione e l’indagine presso gli anziani del luogo può fornire i motivi della sua origine. Una volta ricostruita la storia, necessita di un eventuale restauro a “mano leggera”, che assicuri la stabilità dell’opera, solo con piccole e mirate operazioni di ripristino che non stravolgano le sue originarie fattezze.

MADONNA DEI SETTE DOLORI 1

Si tratta in questo caso di una devozione di diffusione mondiale, molto seguita anche in Romagna, la cui rappresentazione mostra La Vergine Maria in atteggiamento afflitto, con il cuore esposto sul petto, da cui si irradiano sette spade. In epoca medievale, poiché erano state fissate a sette le gioie, si decise di adottare il medesimo numero, in ambito cristiano già denso di significato, anche per la venerazione dei dolori di Maria, corrispondenti alla profezia di Simeone2 sul  destino  della  Madre  di  Dio:  fuga  in  Egitto; smarrimento di Gesù dodicenne nel Tempio; cattura di Gesù; flagellazione e coronazione di spine; crocifissione; morte e trafittura del costato; deposizione dalla croce e sepoltura3. La patria del culto è l’Olanda, dove un sacerdote, Giovanni de Counderberghe, istituì questa pia pratica nel 1491, fondando un santuario. Alla sua diffusione contribuì l’Ordine dei Servi di Maria, un cui convento si trovava anche, probabilmente dalla fine del XV secolo, a Russi, poco distante da Lugo, dove la festa dell’Ordine Servita si è tramutato nell’odierna festa cittadina, celebrata la terza domenica di settembre.

1 Sulla Madonna dei Sette Dolori (Addolorata): G.D. GORDINI, La festa dell’addolorata nella storia, in Ross zetar d’Rumagna, 1969; B. VENTURI, Edicole e immagini…cit.p.50

2 “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” Luca, 2, 34-35 32 E. CAMPANA, Maria nel culto cattolico, I, Torino-Roma, 1933, pp.328-329.

3 E. CAMPANA, Maria nel culto cattolico, I, Torino-Roma, 1933, pp.328-329

 

BEATA VERGINE DEL PIRATELLO DI IMOLA1

Principale fonte per la genesi di questo culto sono le Cronache Forlivesi di Andrea Bernardi2, secondo cui il 27 marzo 1489 un’immagine della Madonna, dipinta dentro la nicchia di un pilastro costruito vicino ad un pero sulla via Emilia, avrebbe parlato ad un pellegrino di passaggio, il cremonese Stefano Mangelli, svelando il desiderio di essere onorata in quel luogo. Comandato quindi al pellegrino di diffondere tra le genti la sua volontà, lo indirizzò ad Imola, riempiendogli le braccia di rose di bellezza mai vista e rare in quella stagione, perché non dubitassero della sua visione. Dopo che il Mangelli ebbe parlato col Governatore, una processione si recò al pilastrino, e molti prodigi si verificarono, generando il culto per la Madonna del Piratello.

Esistono tuttavia diverse lacune nella storia dell’origine di questa leggenda, a partire dallo stesso nome, rinvenuto in più versioni nei documenti antichi: Peradello, Peradelle, Pyradello, Paradello, Paratello, Pradello, Pratello, Pradel (dialettale). E’però probabile che esso derivi da “Peradello”, il nome di un fondo esistente nella stessa località già molto tempo prima del racconto del Mangelli 3. Anche la datazione è incerta, difatti alcuni cronisti di pochi anni successivi al Bernardi parlano di un’immagine di carta collocata sul pero precedentemente a quella che parlò al Mangelli dal pilastrino. Sulla base delle sue ricerche, Bedeschi ritiene di doversi riferire a questa prima immagine, anticipando la data del miracolo al 27 marzo 1483. Il pilastrino sarebbe stato quindi costruito successivamente sul luogo della visione, ad ospitare un’immagine più pregevole e non deperibile. Questo affresco è tutt’ora conservato nel Santuario del Piratello di Imola ed il suo modello ha trovato larghissima diffusione nelle zone attorno alla città.

1 Sulla Beata Vergine del Piratello di Imola: P. BEDESCHI, L’origine del culto della Madonna del Piratello e le sue oscurità: note critiche, Bologna 1965; B. VENTURI, Edicole ed immagini…cit., pp.46-47

2Andrea Bernardi, Cronache Forlivesi dal 1476 al 1517, pubblicare ora per la prima volta di su l’autografo, a cura di G. Mazzantini, Bologna, 1895-1897

3 P. BEDESCHI, L’origine del culto della Madonna del Piratello e le sue oscurità: note critiche, Bologna, 1965

Riferimenti da: Pilastrini montanari- i monoliti de La Martina -Maria Cecchetti e Arnaldo Vitelli-Rivista Savena Setta Sambro giugno 2018 n.54